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Studio Allergologico Dr. Fabio De Bartolomeis

Reazioni avverse agli alimenti: l’importanza della terminologia

Quello delle reazioni avverse agli alimenti è un argomento di frequente trattazione, non solo nelle riviste scientifiche ma, oramai, anche nei più noti settimanali di attualità.

Continua fonte di dibattiti tanto nei convegni scientifici internazionali quanto nelle riunioni di condominio, le cosiddette intolleranze alimentari(termine forse alla maggior parte di voi più familiare) stanno invadendo la nostra vita, ne abbiamo tutti paura, a tal punto che ognuno di noi è convinto di soffrirne e punta il dito contro almeno un alimento. Ma è corretto parlare sempre e solo di intolleranze alimentari?

L’aggettivo intollerante ed il sostantivo intolleranza fino a poco tempo fa non definivano condizioni biomediche. Essi infatti nascono come termini umanistici, tanto è vero che nei vecchi dizionari tali termini venivano utilizzati soltanto per esprimere dei tratti caratteriali, come ostilità, pregiudizio, impazienza, incapacità ad accettare opinioni diverse dalla propria, in ambito sociale, politico o religioso. Solo recentemente sono comparsi riferimenti alle intolleranze alimentari ed addirittura alleintolleranze a farmaci (argomento di futura trattazione).

Già nel 2001, l’Accademia Europea di Allergologia e Immunologia Clinica ha pubblicato, sotto forma di Position Paper, un documento (“EAACI Position paper – A revised nomenclature for allergy”. Rivista Allergy, 2001: 56: 813–824) con cui ha introdotto il termine Food Hypersensitivity(ipersensibilità ad alimenti), dove per condizione di ipersensibilità si intende lo sviluppo di segni o sintomi, riproducibili, conseguenti all’esposizione verso un determinato stimolo (ad esempio un farmaco o un alimento), “somministrato” a dosi normalmente tollerate dalla maggioranza degli individui della popolazione generale ( i cosiddetti “soggetti normali”).

Ad esempio, potremmo dire che la maggior parte di noi assume ogni giorno 150ml di latte senza sviluppare disturbi quali il dolore addominale o la diarrea, mentre una piccola quota della popolazione sviluppa tali reazioni avverse con appena 10 ml di latte, e potremo definire queste personeipersensibili al latte.

Nello stesso documento veniva fatta una distinzione tra le ipersensibilità immunomediate e le ipersensibilità non immunomediate. Le prime prevedono una attivazione del sistema immunitario da parte di un alimento, a cui consegue una risposta che si traduce in un evento clinicamente manifesto(diarrea, orticaria, ecc.). Il secondo tipo di ipersensibilità, quella non immunomediata, comprende tutte quelle manifestazioni (a volte del tutto simili alle prime) per le quali non sono dimostrabili meccanismi immunlogici, come l’effetto osmotico del lattosio non digerito esercitato nel colon che determina la diarrea.

La finalità dei tale position paper del 2001 non era quella di volere rivedere la terminologia di queste condizioni, argomento che quindi a suo tempo è stato trascurato, proprio in un’epoca in cui erano sbarcate in Europa, dall’altro versante dell’Atlantico, le cosiddette intolleranze alimentari, intese non nel senso scientifico galileiano, considerato ‘’limitativo’’, ma in quello più ampio ad esso attribuito dalla potente lobby della medicina ecologista statunitense.

Questo non sembrava un “problema culturale” degno di nota e la stesura del documento di cui sopra potrebbe apparire come l’espressione dell’essenza della cultura mitteleuropea che non mira a far prevalere il proprio pensiero su quello debole di altri ma soltanto ad esprimere la forza assoluta del proprio pensiero.

Fatto sta che dopo oltre 10 anni, sebbene nella classificazione del 2001 non compariva il termine intolleranza, oggi il sostantivo “intolleranza”, seguito dall’aggettivazione “alimentare”, non solo è diventato gergo comune nella popolazione ma è ancora frequentemente usato dai medici in generale e persino dagli allergologi e dagli immunologi clinici che, invece, dovrebbero essere i depositari naturali dell’appropriata nomenclatura nonché gli artefici della sua diffusione tra gli altri medici e nella popolazione generale.

Essendo oggi il web lo specchio della società e del tempo che viviamo, se provate a consultare un motore di ricerca come Google® ricercando leparole chiave “allergia alimentare” e “intolleranza alimentare”,vedrete che il numero di risultati che avrete per le due parole chiave sarà pressoché sovrapponibile, se non addirittura sbilanciato a favore della seconda. Stesso risultato se usate le parole chiave in inglese “food allergy” e “food intolerance”.

Andando invece sulla banca dati PubMed, il sito scientifico biomedico più noto, la situazione per fortuna migliora, ossia le key words “Food Allergy” e “Food Hypersensitivity” sono le più diffuse (con oltre 16000 voci bibliografiche), ma al tempo stesso noterete una persistente indulgenza verso il termine “food intolerance” (con oltre 4000 voci bibliografiche).

Questo cosa vuol dire? Vuol dire che queste indulgenze e resistenze degli addetti ai lavori vengono poi enfatizzate al di fuori del mondo scientifico. Infatti, come vengono intesi comunemente dalla popolazione generale i termini “allergia” ed “intolleranza”?

Spesso le persone associano il concetto di allergia al concetto di anafilassi,quindi ad una condizione che mette in pericolo la vita, cioè associano l’allergia alla morte. L’“intolleranza’’ invece, viene avvertita come una condizione fastidiosa che crea una serie di disturbi ma che comunque si associa ad una condizione di “sopravvivenza”.

Di fronte a questa logica, se voi foste dei pazienti costretti a scegliere tra allergia e intolleranza alimentare, di cosa vi augurereste di soffrire? E quindi cosa andreste a ricercare? È ovvio che scegliereste le intolleranze!

Questi falsi ma radicati sillogismi vengono fortificati dalla cattiva pratica allergologica difensiva, che abitualmente si limita ad indagare esclusivamente l’eziologia alimentare di reazioni acute allergiche minacciose come le orticarie e le anafilassi, per cui quando questi epifenomeni vengono a mancare, il povero paziente viene bistrattato ed abbandonato a se stesso, non si cercano altre cause che potrebbero spiegare quel malessere da cui è affetto, ed egli inevitabilmente si sottoporrà ad uno o più dei già noti test per le intolleranze alimentari presso la propria farmacia di fiducia.

Spesso l’afflizione del paziente e del suo medico di medicina generale è tale che si va a ricercare una risposta a quel quotidiano malessere fisico e psichico direttamente da un allergologo, affinché questi pratichi urgentemente i test per le intolleranze alimentari. Ebbene è così che sempre più spesso vengono chiamati i test allergometrici cutanei (universalmente noti come skin prick tests), ossia le indagini eseguite in vivo (direttamente sul paziente) che evidenzia uno di quei meccanismi sopra citati di attivazione del sistema immunitario nei confronti di uno o più alimenti, le cosiddette reazioni avverse IgE-mediate ad alimenti.

Tutte queste considerazioni, anche se ufficialmente inespresse, sono state probabilmente le stesse che hanno indotto più recentemente (dicembre 2010) i maggiori esperti statunitensi di allergia alimentare, proprio gli inventori del termine “intolleranza alimentare”, a rivisitare la terminologia e ad incasellare ufficialmente tale termine nell’ambito delle reazioni avverse (oipersensibilità) non-immunomediate ad alimenti.

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